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Al confine tra il mondo della fotografia e il mondo dell’arte c’è uno spazio all’interno del quale convivono due linguaggi. Il linguaggio che a noi interessa si caratterizza per le proprie specificità mediali. La fotografia è arte in mille modi diversi. È arte quando pensiamo all’arte come téchne e quando pensiamo alla fotografia come segno indicale. L’arte plastica e l’arte visiva hanno una loro storia. La fotografia è fotografia e ne ha ormai una propria. È una questione che riguarda media differenti. Considerando questa convivenza per le creature che da essa si generano, non possiamo che rallegrarci. Nessuna lotta, nessun conflitto. Il famoso combattimento per il campo dell’immagine si era già chiuso nell’Ottocento. La macchina fotografica riproduce il mondo secondo il sistema della prospettiva rinascimentale. Ma se è vero che nel Novecento sia l’arte che la fotografia si sono affrancate da questo sistema, è anche vero che sono rimaste per molto tempo ancorate alla logica del quadro. Nella seconda metà del secolo scorso abbiamo capito che la fotografia funziona in modo diverso dalla pittura. Gli storici e i teorici dell’arte hanno riscoperto Charles Sanders Peirce e hanno compreso la logica indicale che caratterizza i procedimenti fotografici. Dopo, niente è più stato come prima. Corollario del fotografico come segno indicale è la sua appartenenza al mondo della contingenza di cui costituisce il prelievo. La versatilità, la capacità rigenerativa, l’eterogeneità del linguaggio fotografico nascono da questo suo aderire alla realtà e alla vita di tutti i giorni, da questo suo penetrare in ogni ambito e anfratto cognitivo e performativo. A questo suo essere tutto e niente attingono i creativi che nel confine tra due mondi trovano diverse e rinnovate modalità di espressione e presenza.