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Al campo base si torna, durante le escursioni, a tracciare appunti e a prender nota. L’universo fotografico che abitiamo è grande ed è tutto da esplorare. Si può scrivere di un autore che si conosce organizzando i dati in sezioni, riutilizzando uno stesso schema o modificandolo parzialmente. Si sa dove il sentiero conduce e come tornare. Oppure si può scrivere di un libro già letto, di una mostra, di un evento, di un festival visitato: l’argomento, comunque si decida di suddividere il testo, qualunque stile si scelga o si debba applicare, non può che iniziare e concludersi nello spazio tra un incipit e un explicit a partire da informazioni già note. Può capitare, tuttavia, di avventurarsi senza sapere fino a quando sarà possibile percorrere sentieri già tracciati. Quando si esce dai soliti percorsi è meglio non allontanarsi: si rischia di non ritrovare la via del ritorno. Il campo base serve a questo. Non è casa, ma nemmeno bivacco. Si riordinano le informazioni prima di esplorare il territorio in nuove direzioni. Una volta raccolti dati sufficienti, sull’area che circonda il campo entro un determinato perimetro, si saprà esattamente dove spostare il campo per l’escursione successiva. È così quando si affrontano questioni teoriche complesse, oppure autori e argomenti nuovi: non si può fare altro che presentarli in modo parziale. Per approssimazione. È anche un approccio strategico a dir la verità: da un certo numero di scritti parziali è possibile derivare qualcosa di più corposo. C’è chi le approssimazioni le tiene nel cassetto, i blogger le condividono.